Le follie di Brooklyn di Paul Auster

Follie di Brooklyn

Stavo cercando un posto tranquillo per morire. Qualcuno mi raccomandò Brooklyn e così la mattina dopo partii dalla contea di Westchester e andai fin là per fare un sopralluogo. Non ci tornavo da cinquantasei anni, e non ricordavo nulla. I miei genitori avevano lasciato la metropoli quando avevo tre anni, ma l’istinto mi richiamò nel quartiere dove avevamo vissuto, trascinandomi come un cane ferito verso il luogo natio. […] Non avevo idea di chi fossero i miei vicini e non me ne importava. Lavoravano tutti dalle nove alle cinque e nessuno aveva bambini, quindi il palazzo era relativamente silenzioso. E io, questo desideravo più di ogni altra cosa. Una fine silenziosa per la mia vita triste e ridicola.

Scampato al cancro e con un matrimonio finito alle spalle, Nathan Glass torna nella sua città natale completamente svuotato e senza alcuna aspettativa, se non quella di passare i suoi ultimi anni di vita in tranquillità.
Il caso invece ha ancora in serbo qualche sorpresa per l’ex assicuratore appena tornato a Brooklyn. Con il casuale incontro di Tom, il nipote dalle mille speranze svanite, la lieve brezza di una vita tranquilla si tramuta presto in un vento impetuoso e sferzante, come quello che spira perennemente sulle rive del fiume Hudson su cui si affaccia Brooklyn. Il giovane nipote catapulta Nathan in una caotica e variopinta avventura in cui le vicende di un libraio falsario si intersecano con quelle di una nipotina comparsa dal nulla e ancora con gli amori senza né capo né coda di Tom, in un vortice di sana follia contemporanea.

Il romanzo è una dichiarazione di amore di Auster per la letteratura. L’intero racconto è disseminato di brevi accenni e citazioni a scrittori di tutti i tempi come Wittgenstein, Joyce, Balzac, Melville, Dickinson, Flaubert, Wendell Holmes, Longfellow, Hawthorne, Poe, Whitman, Mallarmé, Keats, Whittier, Marlowe, Leopardi, per citarne solo alcuni tra i tanti che ricorrono tra le pagine del libro.

Desidero parlare della felicità e del benessere, di quei momenti rari e inaspettati in cui la voce dentro la tua testa tace e ti senti tutt’uno con il mondo.
Desidero parlare del clima ai primi di giugno, di armonia e benefico riposo, dei pettirossi e dei fringuelli gialli e degli uccelli azzurri che guizzano oltre le foglie verdi degli alberi.
Desidero parlare dei vantaggi del sonno, dei piaceri del cibo e dell’alcol, di quello che succede alla tua mente quando esci nella luce solare delle due del pomeriggio e senti il caldo abbraccio dell’aria attorno al corpo.
Desidero parlare di Tom e Lucy, di Stanley Chowder e dei quattro giorni che passammo al Chowder Inn, dei pensieri pensati e dei sogni sognati in cima a quell’altura del Vermont meridionale.
Desidero ricordare i crepuscoli cerulei, le languide albe rosa, gli orsi che di notte uggiolavano nel bosco.
Desidero ricordare tutto. Se tutto è chiedere troppo, almeno una parte. No, di più. Quasi tutto, con qualche spazio vuoto riservato ai pezzi mancanti.

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