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Ding

Il mio primo articolo lo inventai di sana pianta. Scrissi un pezzo su una storia strampalata da cartone animato: una tigre scappata da uno zoo aveva fatto vivere nel panico un’intera città. Avevo deciso che il felino era bianco, particolarmente feroce e che era stato catturato su una pensilina della stazione dopo una lunga caccia. Non c’era niente di vero in quell’articolo, ma a mia discolpa posso confidarvi che quando lo scrissi avevo nove anni e che non fu mai pubblicato da nessuna parte. Ricordo di averlo scritto su un vecchio quadernone giallo e di averlo successivamente ricopiato a macchina, la parte più divertente.

Mio padre mi aveva imprestato una vecchia macchina da scrivere da viaggio, di quelle completamente meccaniche con i martelletti, il nastro inchiostrato e il ding a fine corsa del carrello. Non era molto a misura di bambino. Dovevo accanirmi sui tasti e premere forte per imprimere le singole lettere: ci riuscivo solamente usando gli indici e fu così che presi la brutta abitudine di digitare con quelle due sole dita, cosa che continuo a fare anche sulle più comode e pratiche tastiere dei computer dei giorni nostri. Era la fine degli anni Ottanta e, mentre si stava compiendo il passaggio al digitale, io imparavo a scrivere a macchina su un trabiccolo dei tempi di Barzini. Senior.

Saltai il passaggio alla telescrivente e, qualche anno dopo, l’arrivo del primo personal computer in casa sancì il pensionamento definitivo della vecchia macchina da scrivere. Tornò nella sua valigetta e pian piano sparì dai miei ricordi, o almeno così credevo.

Alle mie prime pionieristiche esperienze con il giornalismo e con i ding del carrello ci ho ripensato giovedì scorso, mentre ero a pochi passi dalla stazione di Roma Termini. Ero da poco uscito dalla sede dell’Ordine dei giornalisti un poco frastornato dopo aver sostenuto l’esame di idoneità professionale (che uno deve fare per forza, se vuole esercitare la professione). Stavo rileggendo per l’ennesima volta il pezzo di carta su cui c’era scritto “idoneo” – controllando compulsivamente che avessero scritto nel modo giusto il mio cognome, che a molti risulta ostico – quando ho sentito un ding inconfondibile passando vicino a una bancarella. Un robivecchi stava dimostrando a un tizio che la sua vecchia macchina da scrivere da viaggio funzionava ancora, a patto di trovare un nuovo nastro inchiostrato. Ho continuato a passeggiare e mi son ritrovato a pensare a quello strampalato articolo che scrissi per gioco anni fa, e che non mi era tornato in mente da anni. E tutto grazie a un ding nel momento e al posto giusto.

Ora, da questo episodio non voglio trarre particolari conclusioni metafisiche o tirare in ballo disegni superiori. Le cose succedono per puro caso, di continuo, solo che non siamo sempre nelle condizioni di rendercene conto. Ogni giorno accadono eventi che possono ricordarcene altri, cui non pensavamo da una vita, ma spesso passiamo oltre senza farci caso. (Ed è probabilmente un bene, altrimenti non faremmo altro da quando ci svegliamo a quando andiamo a dormire.) Ding molto simili a quelli della macchina da scrivere da viaggio di mio padre ne avrò sentiti a bizzeffe dai nove anni in poi, ma sono sempre arrivati nei momenti sbagliati, almeno per la mia mente e l’incasinata serie di ricordi e pensieri che deve gestire. Quello di giovedì, era più che altro un ding dal tempismo perfetto. La tigre bianca sulla pensilina a Termini, invece, non c’era.