Ieri, l’Intergovernmental Panel on Climate Change (IPPC), cioè l’organizzazione intergovernativa che si occupa dello studio del cambiamento climatico per conto delle Nazioni Unite, ha diffuso un nuovo rapporto piuttosto allarmante sui potenziali effetti irreversibili sul clima dovuti alle continue emissioni di gas serra, dovute in larga parte alle attività umane. Il rapporto dice che per evitare ulteriori peggioramenti, entro la fine del secolo sarà necessario abbandonare quasi del tutto l’utilizzo dei combustibili fossili.
Il problema del riscaldamento globale è noto da anni, migliaia di ricerche scientifiche ne hanno dimostrato l’esistenza e le cause, eppure fino a ora è stato più facile voltare lo sguardo da un’altra parte o perdersi in un infinito dibattito – spesso assurdo, per non dire di peggio – sulla fondatezza della corposa quantità di studi prodotti. Più del 97 per cento delle ricerche che hanno espresso una posizione sul tema nei loro abstract, per esempio, è arrivato alla conclusione che la principale causa del riscaldamento globale siamo noi bipedi, ma ancora oggi c’è una parte minoritaria che sostiene che, no, noi non c’entriamo niente e che il danno causato dall’uomo al clima è stato sopravvalutato. I detrattori sono pochissimi, ma ricevono di continuo spazio nei media per illustrare le loro tesi strampalate: in molti casi non sono nemmeno climatologi o ricercatori.
La prossima volta che qualcuno vi racconta di averne visto uno in televisione e di essersi fatto venire qualche dubbio, mostrategli questo.
Ma dalle parti della Louisiana a che punto sono col petrolio? Ci affogano dentro, almeno stando alle ultime notizie sul Post (non sono in molti in Italia a occuparsi del pasticciaccio brutto del Golfo).
Al momento l’unica strategia messa in campo dalla BP è quella della cannuccia nel bicchierone stile McDonald’s. Con una intricata serie di tubi e valvole il petrolio viene aspirato e stivato in una nave, solo che lo spazio delle petroliere utilizzate non è infinito, così l’equivalente di diverse migliaia di barili di petrolio finisce ogni giorno in acqua. L’oro nero disperso viene in parte bruciato, cosa che secondo gli ambientalisti porta alla dispersione di fumi tossici che appestano anche l’aria.
Finora 639 uccelli sono stati ritrovati ricoperti di petrolio, di cui solo 42 sono stati rimessi in libertà; più di 100 tartarughe, di cui solo tre sono già tornate in mare. E diverse associazioni ambientaliste continuano a sostenere che i danni agli animali sono irreversibili, consigliandone l’uccisione. La conta degli animali coinvolti è tra l’altro solo una piccola parte del disastro, che come ipotizzato dalla Guardia Marina avrà conseguenze sulla zona per anni.
L’impressione è che quelli della BP continuino a muoversi a vista seguendo la strategia delle prove ed errori come dei provetti macachi. Al momento la soluzione migliore sembra essere quella proposta da Stephen Colbert: «Una volta tolta la poca acqua rimasta nel Golfo potremo costruire il più grande serbatoio di greggio del mondo. Problema risolto. Grazie BP!».
Su Newsweek si chiedono: ma ha senso ripulire gli uccelli e le tartarughe zuppi di petrolio della Louisiana? Secondo diversi ricercatori, gli animali subiscono un enorme stress quando vengono catturati e sottoposti alle lunghe ore di lavaggio necessarie per rimuovere tutta la fanghiglia oleosa. Il trauma non è indifferente e spesso gli animali rimessi in libertà non si riprendono del tutto e muoiono dopo alcune settimane.
Naturalmente non tutti gli animali reagiscono allo stesso modo allo stress, né vanno incontro a ore e ore di pulizia. I pennuti sono i più difficili da trattare, altre specie come le tartarughe se la cavano meglio. Bisognerebbe scegliere caso per caso, ma la certezza di garantire un futuro che duri qualcosa di più di un paio di settimane a un animale liberato dal petrolio pare proprio non possa esserci.
L’articolo di Newsweek mi ha fatto tornare in mente una pubblicità in cui mi ero imbattuto lo scorso anno vai a sapere come. Lo spot è della marca di detersivo per piatti Dawn e mostra come il prodotto possa essere utilizzato per ripulire gli animali sporchi di petrolio. Il detersivo viene utilizzato da volontari ed esperti da oltre 30 anni e quelli di Dawn sfruttano la cosa per farsi un po’ di pubblicità, a fin di bene, dicono loro. Coscienza pulita.
Quando lo misero su quello strano affare cilindrico alto alto, Albert non oppose molta resistenza. Si fidava di chi gli stava intorno e non immaginava che non sarebbe più tornato indietro.
Albert era un esemplare di Macaco Rhesus e nel giugno del 1948 divenne la prima scimmia astronauta nella storia dell’esplorazione spaziale. Il primate coprì una distanza pari a 63 km grazie a un lanciatore V2. Il viaggio consentì di comprendere gli effetti di una forte accelerazione e delle alte quote su un essere vivente, ma non lasciò scampo ad Albert: morì di soffocamento durante la sua parabola nei cieli d’America.
L’onore e l’onere di sperimentare un volo spaziale spettò ad alcuni altri primati negli anni seguenti. Così, per la propria campagna sulla protezione del nostro Pianeta, il WWF ha provato a immaginare il ritorno di un collega di Albert a tanti anni dal lancio nello spazio.
Pare che vista da lassù la Terra sia magnifica, meglio tenercela stretta.
I grandi del mondo si vedono al G8 in Giappone. La riunione è dedicata a un altro tema importante, quello del clima. Ma forse, in questi giorni di eccezionale sofferenza sui mercati, sarebbe meglio dare la priorità ai temi finanziari. I prezzi crescono, i salari restano inchiodati e il petrolio è quasi raddoppiato in pochi mesi. Qualche rimedio al caldo estivo siamo in grado di trovarlo anche da soli.
Abbandonato dalla madre, un cucciolo di macaco di appena 12 settimane era caduto in profonda depressione. Denutrito e gravemente ammalato, è stato salvato da un team di veterinari della più grande riserva per animali della Cina meridionale, nella provincia di Guangdong. Qui il macaco è stato ospitato in un ospedale per animali e, nonostante le pessime condizioni, ha iniziato una lenta ma costante guarigione.
Ritrovata la salute, il macaco continuava a soffrire di depressione dovuta al repentino abbandono da parte della madre finché, alcune settimane fa, ha conosciuto una delle tante colombe ospitate nell’immensa riserva naturalistica.
In pochi giorni tra i due animali è nata una specie di amicizia, che pare abbia aiutato il macaco a uscire dal suo stato di depressione.
(clicca sull’immagine per ingrandirla)
Questo insolito caso di pet therapy ha incuriosito numerosi etologi, pronti a partire per studiare e analizzare questa strana coppia e la socialità fuori dal comune dei due animali. Quello della riserva di Guangdong non è comunque un caso isolato. Alcuni mesi fa, si parlò di una famiglia di maialini che adottò un cucciolo di tigre rimasto orfano. Nel 2005, invece, una cerbiatta fu adottata da un cane dopo essere stata abbandonata dalla madre.
Era il 29 gennaio del 1992 quando una violenta tempesta investiva una nave commerciale rovesciando nel Pacifico tre container pieni di giocattoli, costruiti in Cina e destinati ai mercati di Stati Uniti ed Europa. In quello spaventoso incidente, che fortunatamente non causò morti o feriti, 30.000 paperette di plastica conquistarono la libertà.
Navigando verso sud, uno stormo di ventimila papere invase dopo pochi mesi le coste dell’Indonesia, dell’Australia e del Sud America. Le restanti diecimila, ai caldi mari del Sud, preferirono i rigidi climi dell’emisfero boreale.
In tre anni di instancabile navigazione, le papere di plastica raggiunsero prima le fredde coste dell’Alaska, per poi ripiegare a ovest verso il più ospitale Giappone. Sfruttando poi la corrente del Pacifico, le paperette sono ritornate sui loro passi e, doppiando lo stretto di Bering, hanno raggiunto l’Artico.
Qui, imprigionate dai ghiacci, le paperette hanno rallentato il loro viaggio muovendosi di poche centinaia di chilometri nell’arco di 8 anni.
Scolorite dalla salsedine e dai raggi solari, alcune migliaia di papere si sono recentemente liberate dai ghiacci e hanno ripreso la loro migrazione. A 15 anni dal loro primo tuffo nell’oceano Pacifico, queste paperette stanno per raggiungere le coste della Scozia e dell’Irlanda del Nord dopo aver agganciato le forti correnti del Golfo.
Dal 1992 a oggi, la stormo di 10.000 papere ha percorso quasi 28.000 km, lasciandosi trasportare dalle correnti oceaniche.
Verificata l’assenza di alcun danno ecologico, molti ricercatori hanno sfruttato l’insolita corsa tra gli oceani delle paperette per studiare le correnti marine. Il prof. Simon Boxall, del centro oceanografico di Southampton (Regno Unito), deve molto a questi giocattoli: “Queste paperette sono un ottimo sistema per tracciare con precisione il comportamento delle correnti, anche in funzione del progressivo surriscaldamento globale. Se tutto andrà bene, potranno continuare a fornirci dati per almeno cento anni!”.
Cosa accadrebbe se di colpo gli oltre sei miliardi di esseri umani che popolano la Terra scomparissero improvvisamente? Come reagirebbe il pianeta e cosa resterebbe a testimoniare le nostre esistenze?
Il giornalista americano Alan Weisman ha cercato di rispondere a queste domande con una approfondita e documentata ricerca diventata The World Without Us(Il Mondo senza di noi), libro da poco pubblicato negli Stati Uniti.
Ecco la sua corsa nel tempo dall’oggi a un futuro di cinque miliardi di anni.
2 giorni dalla scomparsa del genere umano
Primo effetto, banale ma non così scontato, la metropolitana di New York sarebbe invasa dall’Oceano a causa del mancato pompaggio delle acque.
7 giorni
A causa del mancato rifornimento di carburante, la maggior parte dei generatori di emergenza delle centrali nucleari si arresterebbe, causando la fusione del nocciolo nei reattori.
1 anno
In tutto il mondo un miliardo di uccelli, uccisi ogni anno, sopravvivrebbe grazie al mancato funzionamento delle luci nei grattacieli, dei ripetitori, delle pale per l’energia eolica e dei cavi dell’alta tensione.
Molte specie animali inizierebbero a ripopolare i siti ove si erano verificate le esplosioni delle centrali nucleari.
3 anni
La mancata manutenzione delle tubature del gas porterebbe a violente esplosioni nelle città, con considerevoli conseguenze sulla stabilità degli edifici. Nelle zone climatiche più fredde, l’acqua congelerebbe dilaniando le tubature che la contenevano. Non potendo contare su caldi rifugi in cui passare l’inverno, persino gli scarafaggi sarebbero costretti a traslocare…
20 anni
Abbandonato alle forze della Natura, il canale di Panama scomparirebbe completamente, riunificando dopo decenni le due Americhe. Intanto, nelle metropoli devastate per anni da incendi, inondazioni ed esplosioni, la vegetazione inizierebbe ad invadere e colonizzare ciò che l’uomo aveva creato.
Un secolo
Il mancato commercio di avorio consentirebbe all’intera popolazione di elefanti del globo di aumentare di almeno 20 volte.
Le specie di piccoli predatori come volpi, donnole, orsetti lavatori e tassi verrebbero sterminate dai discendenti di animali molto combattivi allevati fino a un secolo prima dall’uomo: i gatti domestici.
Acceleriamo e compiamo un balzo di…
Cinque millenni
Tutte le infrastrutture create dall’uomo sarebbero ormai completamente distrutte, compresi i ponti e gli edifici in acciaio più resistenti. Tra i pochi reperti della nostra civiltà l’unico in grado di sopravvivere potrebbe essere il Tunnel sotto la Manica.
100.000 anni
I livelli di anidride carbonica si riporterebbero sui valori esistenti prima della comparsa dell’Uomo sul pianeta.
10 milioni di anni
Qualcosa a testimonianza della nostra esistenza sopravvivrebbe ancora: alcune parti dei monumenti in bronzo che oggi ornano le nostre città.
Tra i 4 e i 5 miliardi di anni La Terra inizierebbe a soffrire la progressiva espansione della stella che un tempo le aveva dato la vita: il Sole. Intorno ai 5 miliardi di anni per il nostro Pianeta sarebbe la fine, completamente bruciato e inglobato dall’incredibile energia sprigionata dal Sole, alle prese con le sue ultime drammatiche fasi di vita.
Secondo gli scienziati consultati da Weisman una sola cosa creata dall’uomo potrebbe sopravvivere a tutto questo: le onde radio. Quotidianamente emesse per le nostre comunicazioni, le onde radio continuano per miliardi di anni luce il loro cammino verso l’ignoto, portando con sé la testimonianza della nostra esistenza.
Tuffarsi in un’enorme tazza di cappuccino. No, non è il desiderio di qualche caffeinomane, ma la sensazione che hanno provato gli abitanti di Yamba, una piccola cittadina costiera a nord di Sidney (Australia), quando hanno visto il loro oceano gonfiarsi come una soffice schiuma di latte.
Il moto violento e irrequieto dell’Oceano combinato a una particolare condizione atmosferica ha trasformato la zona costiera di Yamba in un grande frullatore. In poche ore l’intera costa si è ricoperta di una schiuma bianca naturale, salata e completamente innocua.
Il fenomeno, che si faceva attendere da ormai 30 anni in Australia, si verifica quando a causa dell’evaporazione delle acque marine la concentrazione di sale, microrganismi, impurità e alghe in decomposizione aumenta considerevolmente in alcuni tratti dell’Oceano. Il violento moto ondoso contro la costa provvede poi a “frullare” tutti questi ingredienti, incorporando grandi quantità di aria. Proprio come avviene in un cappuccino, le bolle d’aria rimangono imprigionate in una struttura molto resistente e leggera che dà poi origine alla schiuma.
“Era incredibile, sembrava di correre sull’aria, non sentivi nulla sotto la tavola” ha detto Tom Woods, uno dei tanti surfisti accorsi a Yamba.
Causata dalle violente tempeste che in questi giorni hanno interessato le coste a nord-est dell’Australia, la schiuma oceanica si sta lentamente smontando, liberando i chilometri di costa che aveva invaso lo scorso venerdì.