Al Vasamuseet arrivammo di buon mattino nel pieno rispetto della tradizione dei viaggi di famiglia e della filosofia turistica di mio padre: se arrivi tardi sprechi un sacco di tempo in coda per i biglietti e vedi meno cose. Era una mattina di agosto di quindici anni fa, l’aria era ancora fresca e un sole poco convinto iniziava a intiepidire quell’angolo di Svezia. Avevamo macinato più di duemila chilometri per arrivare fino a lì. Da Torino a Stoccolma in automobile, un po’ per sfida, un po’ per evitare il patimento dell’aereo a chi in famiglia temeva di spiaccicarsi alla prima virata senza poter vedere un altro domani.
Lì, davanti a quel vistoso e strambo scrigno-hangar che al suo interno custodisce il Vasa, ricordo di aver osservato scettico i tre finti alberi di nave montati sul tetto per ricordare a tutti che lì dentro, sì proprio in quell’affare, viene custodita la nave più famosa di tutta la Scandinavia. I “vedrai, vedrai” dei miei mentre facevamo i biglietti avevano aumentato ulteriormente il mio scetticismo. Capirai, quattro pezzi di legno di una nave che manco riusciva a stare a galla. Poi entrai lì dentro e ci vollero pochi minuti per cambiare idea.
Del museo ricordo l’incredibile quantità di oggetti ritrovati a bordo, la storia dell’ambizioso recupero del vascello affondato rovinosamente durante il suo viaggio inaugurale e naturalmente l’enorme stanzone in cui viene conservato il Vasa. L’odore indescrivibile del legno rimasto a mollo per tre secoli e trattato per evitare che si spezzasse, dopo il recupero, le luci soffuse, l’umidità e il silenzio di chi gli passeggiava intorno, affascinato e sbalordito.
Il sole era già alto quando uscimmo dal museo, ma il cielo si era rannuvolato. Si era alzato un po’ di vento, guardai le acque lì davanti e cercai di immaginare la scena dell’affondamento del Vasa. A distanza di 15 anni ho raccontato quella storia sul Post, se avete un po’ di tempo libero leggetela. Se ne avete molto, andatelo a vedere. Anche in aereo.
Quattro anni fa (il tempo vola e compagnia bella) scrissi un post raccogliendo qualche curiosità sulle zanzare. Alcune di quelle informazioni forse ora sono datate o smentite, comunque: saltò fuori che per risucchiare tutto il sangue di un uomo adulto ci vogliono almeno 1,2 milioni di zanzare, ma il tizio in questione schiatterebbe prima per shock anafilattico; che l’accoppiamento tra due zanzare dura una quindicina di secondi e che qualche milione di anni fa questi insetti erano mediamente tre volte più grandi di adesso.
Il post del 2007 mi è tornato in mente grazie ad alcune fastidiose punture e a questo video, dove qualcuno per amore della scienza e dell’alta definizione ha deciso di riprendere il lauto pasto di alcune zanzare. Di solito ci accorgiamo solo delle conseguenze del prelievo, vedere come fanno è istruttivo.
Sì lo so, con questa faccenda dell’ultima missione dello Shuttle vado avanti da giorni (a proposito, l’ultima galleria fotografica del Post in tema l’avete vista?), ma per uno nato tredici anni dopo l’arrivo sulla Luna le astronavi della NASA rappresentano l’esplorazione e la conquista dello Spazio più di qualsiasi altra cosa. Con tutto il rispetto per i fan delle intramontabili Soyuz, naturalmente. E poi il video qui sotto di Nature è favoloso. Mettevi comodi.
Nella mia personalissima lista di cose da fare prima di schiattare c’era anche: vedere dal vivo un lancio dello Shuttle da Cape Canaveral. Ma la NASA si è messa di traverso e venerdì scorso ha lanciato in orbita per l’ultima volta l’Atlantis, mettendo l’ultimo sigillo sul Programma Shuttle.
Questi due qui sotto, sono padre e figlio, hanno deciso di farmelo pesare pubblicando due fotografie che dimostrano la loro presenza al primo e ultimo lancio dello Shuttle.
Ieri sul Post mi sono occupato dell’ultima missione del programma Shuttle che, tempo atmosferico permettendo, inizierà venerdì con il lancio dell’Atlantis. Analisti, astrofisici, economisti, politici e semplici appassionati in questi mesi si sono chiesti quale futuro ci sarà per gli Stati Uniti nel campo delle esplorazioni spaziali con esseri umani.
L’idea, per ora poco chiara e molto confusa, è quella di delegare il trasporto degli astronauti e dei materiali in orbita a ditte private, consentendo alla NASA di concentrarsi su nuove ricerche e sperimentazioni. (Tranquilli, il pallino di andare un giorno su Marte ce l’hanno ancora, i soldi per ora proprio no.) In attesa di avere le idee più chiare, si fanno coraggio così.
Domenica andrò a votare per i referendum, consapevole che il raggiungimento del quorum non è così scontato, visto l’andazzo e i ripetuti inviti poco eleganti da parte di persone con incarichi istituzionali ad andarsene al mare o in montagna. Posto che l’idea dei referendum e della democrazia diretta non mi entusiasma – deleghiamo un migliaio di persone a occuparsi di problemi complessi e articolati sperando ne abbiano le competenze – andrò a votare perché non riesco a farne a meno, perché sono convinto che sia lo strumento più efficace per farsi sentire quando qualcosa non va e perché se hai una tua idea è giusto che la esprimi sulla scheda, lì al seggio, prendendoti le tue responsabilità.
Su acqua e legittimo impedimento ho avuto quasi da subito chiaro che cosa votare, mentre per farmi una chiara idea sul nucleare mi ci è voluto più tempo, e forse non sono ancora convintissimo della conclusione cui sono arrivato. Il quesito in sé è stato in buona parte svuotato del proprio significato dalla Corte di Cassazione, che lo ha rivisto per adattarlo agli ultimi provvedimenti del governo che ha deciso dopo il casino di Fukushima di prendersi un anno sabbatico dall’atomo, di decantazione, dicono loro. Anche se non è più quello iniziale, il quesito ci pone comunque davanti a una scelta che potrà condizionare non solo la costruzione delle centrali nucleari nel nostro paese (per ora una chimera), ma anche la possibilità di fare ricerca per gli impianti di nuova generazione che si preannunciano più puliti.
E dico puliti, in riferimento alla produzione di scorie nucleari, e non sicuri perché la sicurezza di un impianto non è solamente data dalle tecnologie che lo fanno funzionare: è il modo in cui vengono gestite e amministrate da personale competente e preparato. Ed è qui il nodo principale della questione (poi, ok, ci sono molti altri aspetti da valutare come racconto oggi qui). Il refrain di questi giorni, ripetuto come un mantra dai sostenitori del SI, è che noi qui in Italia non saremmo mai capaci di gestire una centrale nucleare, che noi per queste cose complicate non siamo pronti e finiremmo per fare chissà quali disastri.
Per un bel pezzo l’ho pensata anch’io così, poi ho provato a cambiare prospettiva e mi sono messo a immaginare il numero notevole di circostanze in cui la mia vita dipende dal lavoro degli altri, da enormi società o da enti pubblici. L’esempio più efficace è quello dell’alta velocità. Quasi tutte le settimane viaggio sui treni dell’alta velocità tra Milano e Torino, seduto comodamente su un costosissimo treno che sfreccia ai 300 chilometri orari sui binari. Il Frecciarossa attraversa ponti, viadotti, scambi, affronta curve e gallerie costruiti da una società in parte controllata dalla Stato, da quel pubblico che insieme ai privati si metterebbe a costruire centrali nucleari.
Su quel treno viaggiano con me altre centinaia di persone e in molti punti i binari sono a poche decine di metri di distanza dall’autostrada, dove altre migliaia di persone viaggiano ai 130 chilometri orari, fidandosi di chi ha messo lì l’asfalto, la segnaletica, i viadotti e via discorrendo. Se qualcosa andasse storto, se il treno deragliasse e finisse sulle corsie dell’autostrada, sarebbe un disastro con centinaia di morti, ben superiori a quelle ufficialmente causate dalle centrali nucleari. Eppure questa eventualità non ci ha mica fermati. Dopo anni di discussioni e spese oltre la media europea, l’alta velocità alla fine l’abbiamo fatta e a nessuno è venuto in mente di dire non siamo pronti o non siamo capaci. E badate che costruire un affare del genere, fare manutenzione e gestirlo in sicurezza richiede esperienze, denaro, controlli e professionalità.
Una centrale nucleare non ce la costruirebbe Berlusconi Silvio, ma un consorzio di società e molte di queste sarebbero straniere, dai paesi in cui l’atomo per produrre energia elettrica viene utilizzato da tempo, come la Francia per esempio. Domenica voterò NO perché sono convinto che valga molto la pena di investire risorse nella tecnologia nucleare, nel fare ricerca per le centrali di nuova generazione e per tornare a poter dire qualcosa in un settore nel quale eravamo all’avanguardia fino a una trentina di anni fa. E niente paura, un po’ di illuminismo.
Adam Winnik studia Arti applicate e design allo Sheridan College, in Canada, e per la sua tesi finale ha deciso di illustrare un estratto del libro Pale Blue Dot del divulgatore scientifico Carl Sagan. Il “piccolo puntino azzurro” cui fanno riferimento il titolo del libro e l’animazione di Winnik è il nostro Pianeta fotografato venti anni fa a grande distanza da una sonda spaziale.
Nel 1990 Sagan propose alla NASA di far scattare una fotografia della Terra dalla sonda Voyager 1 che si trovava a circa sei miliardi di chilometri di distanza e in viaggio verso i confini del Sistema Solare. La foto, votata come una delle 10 migliori immagini scientifiche dello spazio di tutti i tempi, mostra un minuscolo punto azzurro nel buio del cosmo, la nostra casa. Quell’immagine così suggestiva ispirò profondamente Sagan e lo spinse a scrivere una serie di interessanti riflessioni sulla nostra esistenza su quel piccolo punto solitario nello spazio.
Winnik ha così selezionato uno dei passaggi più celebri del libro, letto direttamente da Sagan in un vecchio reading, ci ha aggiunto una colonna sonora di Hans Zimmer, che non guasta mai, e ha poi creato l’animazione.
From this distant vantage point, the Earth might not seem of any particular interest. But for us, it’s different. Consider again that dot. That’s here. That’s home. That’s us. On it everyone you love, everyone you know, everyone you ever heard of, every human being who ever was, lived out their lives. The aggregate of our joy and suffering, thousands of confident religions, ideologies, and economic doctrines, every hunter and forager, every hero and coward, every creator and destroyer of civilization, ever king and peasant, every young couple in love, every mother and father, hopeful child, inventor and explorer, every teacher of morals, every corrupt politician, every “superstar”, every “supreme leader”, every saint and sinner in the history of our species lived there — on a mote of dust suspended in a sunbeam.
The Earth is a very small stage in a vast cosmic arena. Think of the rivers of blood spilled by all those generals and emperors so that, in glory and triumph, they could become momentary masters of a fraction of a dot. Think of the endless cruelties visited by the inhabitants of one corner of this pixel on the scarcely distinguishable inhabitants of some other corner, how frequent their misunderstandings, how eager they are to kill one another, how fervent their hatreds.
Our posturings, our imagined self-importance, the delusion that we have some privileged position in the Universe, are challenged by this point of pale light. Our planet is a lonely speck in the great enveloping cosmic dark. In our obscurity, in all this vastness, there is no hint that help will come from elsewhere to save us from ourselves.
The Earth is the only world known so far to harbor life. There is nowhere else, at least in the near future, to which our species could migrate. Visit, yes. Settle, not yet. Like it or not, for the moment the Earth is where we make our stand.
It has been said that astronomy is a humbling and character-building experience. There is perhaps no better demonstration of the folly of human conceits than this distant image of our tiny world. To me, it underscores our responsibility to deal more kindly with one another, and to preserve and cherish the pale blue dot, the only home we’ve ever known.
Oggi Rita Levi Montalcini compie 102 anni. E in un periodo in cui si parla tanto del ruolo della donna nella nostra società e di questi giovani bamboccioni che non combinano nulla e compagnia bella, mi piace ricordarla con queste sue parole. Auguri.
Il messaggio che invio, e credo anche più importante di quello scientifico, è di affrontare la vita con totale disinteresse alla propria persona, e con la massima attenzione verso il mondo che ci circonda, sia quello inanimato che quello dei viventi. Questo, ritengo, è stato il mio unico merito. Io dico ai giovani: non pensate a voi stessi, pensate agli altri. Pensate al futuro che vi aspetta, pensate a quello che potete fare, e non temete niente. Non temete le difficoltà: io ne ho passate molte, e le ho attraversate senza paura, con totale indifferenza alla mia persona.
Per conoscere meglio l’affascinante normalità di una persona come Rita Levi Montalcini c’è il libro autobiografico Elogio dell’imperfezione, edito da Garzanti.
Avete presente Rush Limbaugh, il tizio iperconservatore che conduce uno show radiofonico di successo negli Stati Uniti? Pare sia un ottimo rimedio contro gli scolitidi, i famelici coleotteri ghiotti di materiale legnoso che portano spesso devastazioni nelle foreste.
I positivi effetti del vocione di Limbaugh per scacciare questi insetti sono stati riscontrati da un gruppo di ricercatori della Northern Arizona University, che hanno testato la reazione degli scolitidi ad una serie di forti stress sonori. Oltre alla voce del conduttore radiofonico, il team ha utilizzato anche alcuni brani dei Queen e dei Guns n’ Roses.
Risultato: in presenza delle forti sollecitazioni sonore, i coleotteri hanno arrestato le loro libagioni e gli accoppiamenti e in alcuni casi hanno iniziato a combattersi tra loro. Amplificando e prolungando il richiamo di una particolare specie di questi coleotteri, Dendroctonus, i ricercatori hanno ottenuto risultati simili modificando sensibilmente il comportamento di questo insetti.
Per Limbaugh si aprono nuovi scenari di marketing e inquietanti analogie coi bacarozzi.
Il dottorCarl Baugh è un convinto creazionista, nel corso dell’ultima ventina di anni ha scritto libri e condotto trasmissioni televisive sulle emittenti confessionali, come il Trinity Broadcasting Network, cercando di smontare la teoria dell’evoluzione in favore della Genesi e delle verità scientifiche contenute nella Bibbia.
Per fare ciò, il sedicente professore utilizza termini pseudoscientifici e continui sillogismi per convincere chi lo ascolta della validità delle sue teorie. Secondo Baugh, uno strato di idrogeno metallico avrebbe avvolto il nostro Pianeta nelle sue prime fasi di vita. Quindi si sarebbe creata una particolare forma di acqua, l’ “acqua della creazione”: una panacea in grado di curare qualsiasi male.
Baugh sostiene, inoltre, che gli esseri umani esistessero già ai tempi dei dinosauri, nonostante sia scientificamente dimostrato che quest’ultimi si estinsero circa 65 milioni di anni fa, 40 milioni di anni prima che comparissero sulla Terra i primi ominidi. Per Baugh, un campo magnetico estremamente potente avrebbe consentito ai fantomatici “uomini antidiluviani” di controllare la mente dei colossali lucertoloni e di vivere con loro in piena armonia. Grazie alla loro mente ultrasviluppata, gli uomini antidiluviani potevano controllare gli elementi con la sola forza del pensiero e comunicare direttamente con Dio. E tutto senza parabola o digitale terrestre.
Per avvalorare la sua tesi, tempo fa Baugh dichiarò di aver scoperto alcuni fossili su cui potevano essere rintracciate sia le impronte dei dinosauri che quelle di un essere umano. La sua “incredibile scoperta” fu presto completamente smontata, i fossili erano una colossale bufala.
Tra le teorie più strampalate di Baugh, merita un accenno quella sulla formazione geologica del nostro Pianeta: sarebbe avvenuta in appena una settimana. Per dimostrare ciò, nelle sue trasmissioni televisive Baugh conduce un affascinante esperimento, che in genere si fa in terza elementare per spiegare ai bambini che cos’è l’humus, quel sottile strato del suolo estremamente fertile e fondamentale per le coltivazioni.
Baugh riversa terra, sabbia, ghiaia e argilla in un recipiente di vetro precedentemente riempito con acqua. Dopodiché dà una bella mescolata e invita gli spettatori ad attendere che si sedimentino i vari strati. Avendo pesi specifici differenti, i materiali terrosi si dispongono stratificandosi uno sull’altro, come facilmente intuibile. Secondo Baugh, questo semplicissimo fenomeno, spiegherebbe l’intera stratificazione geologica della crosta terrestre e la sua teoria secondo cui tale processo si sarebbe verificato in appena sette giorni.
Stando alle teorie di Baugh, lo spettacolare Grand Canyon si sarebbe formato subito dopo la creazione della Terra in appena 15 giorni. Per avere un metro di paragone, gli scienziati – quelli seri – hanno da poco retrodatato l’inizio del fenomeno che portò alla nascita del Grand Canyon a 65 milioni di anni fa.